15 AGOSTO 2014 - 15 AGOSTO 2021

15 AGOSTO 2014

 

 

A 100 anni dalla 1° guerra mondiale

di Domenico Moro (fonte: controlacrisi.org)

Quest’anno cade il centenario della Prima Guerra Mondiale, iniziata con la firma della dichiarazione di guerra da parte dell’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe il 28 luglio 1914.

Per la prima volta nella storia e dopo cento anni di pace

relativa, tutte le maggiori potenze furono coinvolte in una

guerra di carattere mondiale.

Il grado di violenza, le sofferenze dei combattenti e

il costo in vite umane (16 milioni di morti, 650mila quelli

italiani) furono senza precedenti.

Gli equilibri politici e sociali furono stravolti, producendo

eventi come la Rivoluzione sovietica.

Alla fine l’Europa ne uscì stremata e con in grembo

il frutto avvelenato del fascismo, che portò alla Seconda

Guerra mondiale, un ancor più drammatico “secondo

tempo” della Prima Guerra Mondiale.

Per queste ragioni la “Grande Guerra”, come fu

chiamata dai contemporanei, rimane impressa nella

psicologia collettiva ancora oggi, come è testimoniato

dall’uscita recente di decine di pubblicazioni e

dall’attenzione dei media, che gli dedicano trasmissioni

Tv e articoli sui quotidiani.

A questo si aggiunge la coincidenza tra il centenario

e lo scoppio di nuove guerre non solo nel martoriato

Medio Oriente ma anche nel cuore stesso dell’Europa,

in Ucraina, all’interno di un contesto internazionale di

sempre più diffuso caos, che induce a stabilire analogie

tra quanto accade ora e quanto accadde allora.

È possibile, però, parlare di analogie e, se sì, in che

misura e a quale riguardo?

In genere, le ricostruzioni delle cause della Prima Guerra

Mondiale tendono a mostrare lo scoppio della guerra

come un evento nel quale le cancellerie europee furono

tutte trascinate quasi loro malgrado, come in una sorta

di effetto domino, senza aver previsto la portata di quel

che sarebbe accaduto.

Esemplificativo di questo atteggiamento è quanto scritto

da Gianni Toniolo sul Sole24ore del 27 luglio: <Alla

guerra si arrivò con una successione di piccoli passi

muovendosi come sonnambuli.

Colpe di omissione, indifferenza, scarsa lucidità nel

valutare le conseguenze di lungo periodo di decisioni

apparentemente poco rilevanti si distribuiscono tra le

élites di tutti i paesi coinvolti.

Se il 28 luglio impone una riflessione essa riguarda

innanzi tutto la necessità di guardare oltre l’immediato

nell’affrontare le crisi, apparentemente poco correlate di

un mondo nuovamente multipolare, siano esse nel mar

della Cina, nel Medio Oriente, ai confini orientali della

dell’Ucraina>.

Per la verità, lo scoppio della Grande Guerra e le sue

dimensioni non furono del tutto inattese.

Con incredibile preveggenza così scrisse Friedrich

Engels già nel 1886 a proposito dei contrasti tra potenze

europee: <In breve, c’è un grande caos e un unico

risultato sicuro: un massacro di massa di un’ampiezza

sinora mai vista, l’Europa stremata ad un punto mai

visto, infine il crollo di tutto il vecchio sistema … la cosa

migliore sarebbe una rivoluzione russa>.

Comunque, c’è da dire che le cause di una guerra

globale stavano maturando già da decenni.

Esse dipendevano dalla crisi del modo di produzione

capitalistico, che aveva dato luogo al fenomeno

dell’imperialismo e alla lotta sempre più accesa tra le

maggiori potenze capitalistiche per la conquista di

mercati di sbocco di merci e capitali e per il controllo

delle fonti delle materie prime.

In particolare, l’egemonia britannica, che a partire dalla

fine delle guerre napoleoniche aveva garantito la pace

attraverso il “concerto europeo”, stava venendo meno

per la decadenza dell’economia britannica a favore di

nuove potenze industriali.

Tra il 1870 e il 1880 gli Usa e la Germania passarono

rispettivamente, fra i Paesi industriali, al primo e al

secondo posto superando la Gran Bretagna e la Francia.

Però, mentre la Gran Bretagna e la Francia disponevano

di vasti imperi coloniali e gli Usa di un mercato

domestico colossale, la Germania, di piccole dimensioni

e priva di colonie, aveva bisogno di assicurarsi un

mercato di sbocco alle sue merci, a rischio di veder

scoppiare la contraddizione fra le enormi potenzialità

della sua industria e le possibilità di smercio.

Un’identica competizione si era sviluppata per il controllo

del petrolio, in particolare di quello della Mesopotamia,

allora sotto il controllo turco e ora coincidente con

l’attuale Iraq.

Qui la Gran Bretagna proprio nel marzo del 1914 bloccò

il progetto della Germania che, attraverso la costruzione

di una ferrovia tra Costantinopoli e Bagdad, mirava ad

ottenere dal governo ottomano i diritti di estrazione

petrolifera.

Quindi, la Prima Guerra Mondiale fu tutt’altro che il

risultato della improvvida superficialità dei governi

europei, bensì il necessario sbocco della crisi strutturale

del modo di produzione capitalistico e la consapevole

resa dei conti tra Stati imperialisti a fronte della crisi della

potenza egemone.

Su questa base non è molto difficile individuare alcune

analogie con la fase attuale.

Anche oggi siamo di fronte a una crisi del capitalismo di

dimensioni inusitate che non trova soluzioni e che si

manifesta successivamente ad una seconda e più forte

globalizzazione.

Anche oggi siamo dinanzi alla crisi dell’egemonia degli

Stati Uniti e ad una situazione di caos internazionale.

Si prevede che nel giro di pochi anni il prodotto interno

della Cina sopravanzerà quello degli Usa.

Intanto, nel 2013 fra le prime dieci multinazionali se ne

contavano quattro di Paesi “emergenti”, una cinese, due

russe (Gazprom che è al primo posto) e una brasiliana,

mentre nel 2004 ce n’era una sola.

La crisi degli Usa, però, presenta delle differenze

importanti con quella della Gran Bretagna.

La Gran Bretagna poteva compensare il proprio debito

del commercio estero e statale con lo sfruttamento

dell’India, mantenendo in questo modo la stabilità e

l’egemonia della sterlina.

Al contrario, gli Usa non hanno alcuna colonia che possa

assolvere alla stessa funzione e per finanziare

i propri deficit devono poter mantenere il dollaro come

valuta mondiale, in modo da attrarre dall’estero i capitali

che gli necessitano.

Visto che il dollaro rimane moneta mondiale solamente

nella misura in cui viene utilizzata per le transazioni

delle materie prime e in particolare del petrolio, gli Stati

Uniti non possono permettersi di perdere il controllo

delle fonti energetiche e indirettamente dei propri

concorrenti.

Fonti energetiche vuol dire soprattutto Medio Oriente,

dove sono le maggiori riserve mondiali e da cui

importano la maggior parte del loro fabbisogno l’Europa,

il Giappone e la Cina stessa.

Il declino e la fragilità delle basi della loro egemonia

portano gli Usa, e le altre potenze in difficoltà come

la Francia e la Gran Bretagna, ad assumere

comportamenti sempre più aggressivi.

Le guerre di Bush in Iraq e in Afghanistan rientravano

in una strategia di attacco mirante a ristabilire

l’egemonia Usa.

La difficoltà nella gestione degli interventi diretti ha

condotto l’amministrazione Obama a scegliere una

strategia basata su un mix di incursioni soprattutto aeree

e guerre per procura, come si è visto in Pakistan-

Afghanistan, Libia, Siria e quest’anno in Ucraina.

L’obiettivo non è quello di acquisire il controllo di nuovi

territori, ma quello di logorare gli Stati considerati

pericolosi, istigando il conflitto tra i suoi alleati e

portando la guerra fino ai suoi confini, come nel caso

della Russia.

Le divisioni sociali, religiose ed etnico-linguistiche sono

le leve utilizzate a questo scopo.

Il risultato è una situazione di instabilità e caos crescente

a livello internazionale.

L’escalation degli ultimi mesi non solo in Ucraina, ma

anche in Iraq – dove il ruolo degli Usa è quanto meno

ambiguo - e a Gaza non è estranea ad alcuni fatti nuovi

che rendono più oscure le prospettive dell’imperialismo

occidentale a guida Usa.

A giugno la russa Rosnet ha siglato con la Cina un

contratto venticinquennale di fornitura di petrolio per 600

mila barili al giorno, il doppio di quanto viene fornito oggi,

e Putin non esclude di salire a 900 mila barili.

Nel mese in corso, inoltre, la Cina ha mosso i primi passi

per rendere convertibile lo yuan renminbi,

preparandone così l’ascesa a valuta internazionale di

riserva e di scambio. Infine, la Cina, insieme alla Russia

e agli altri Paesi del Brics, ha annunciato la costituzione

di una banca di sviluppo mondiale per finanziare progetti

di sviluppo a Paesi emergenti.

Tutto questo minaccia il controllo dell’imperialismo

occidentale sui flussi finanziari e delle materie prime

energetiche.

È molto difficile fare previsioni o delineare scenari,

valutando se esiste la possibilità che le tensioni che si

vanno accumulando possano sfociare in una guerra

globale e dispiegata tra grandi potenze.

Esistono molte variabili da considerare (tra le quali il

ruolo della Germania) e non è compito di questo articolo

farlo.

Il punto da considerare è che anche noi siamo già in

guerra.

L’Italia negli ultimi anni è stata impegnata in Iraq, in

Afghanistan e in Liba e rischia, per il ruolo internazionale

che la sua classe dirigente ha deciso di assumere, di

essere coinvolta sempre di più nell’escalation bellica.

È a questo proposito che l’esperienza storica della

socialdemocrazia dinanzi alla prima guerra mondiale

dovrebbe essere di ammaestramento.

Nonostante le previsioni di Engels, l’impegno eroico di

leader come Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Jean

Jaurés, assassinato da un nazionalista il 31 luglio 1914,

e l’impegno della 2° Internazionale dei lavoratori al

congresso del 1912 di lottare contro la guerra, i maggiori

partiti socialisti, soprattutto quelli tedesco e francese, si

accodarono ai rispettivi imperialismi.

Solo una minoranza rimase salda sulle posizioni

dell’Internazionale, in particolare la componente

bolscevica della socialdemocrazia russa, che riuscì,

dando inizio alla rivoluzione nel 1917, addirittura a

trasformare il disastro della guerra in punto di partenza

per la costruzione del primo vero tentativo di stato

socialista della Storia.

La lotta per la pace non è un fatto solo etico o morale,

come pure è giusto che sia, ma deve tradursi in termini

politici e sociali.

La lotta per la pace non può che essere una lotta contro

l’imperialismo e, in primo luogo, contro il proprio

imperialismo e per un modello di società alternativo a

quello capitalistico.

Agosto 2014

Dedicato

a TUTTI COLORO che mi prendono un po' in giro, quando dico che è prossimo lo SCOPPIO (palese - quello strisciante è già in atto) della TERZA GUERRA MONDIALE;

e

a TUTTI COLORO che ancora si attardano ad INNEGGIARE all'entrata in guerra dell'Italia nella PRIMA GUERRA MONDIALE e alla sua "VITTORIA".